Non è così blasfemo affermare che il celebre rapper Eminem, vincitore di
numerosi dischi di platino, abbia qualcosa in comune con antichi poeti greci
come Pindaro, Simonide, Bacchilide
o con personaggi dell’umanesimo. Nelle Olimpiadi, che iniziarono a celebrarsi
nel 776 a. C., erano previste accanto alle classiche competizioni atletiche,
anche gare di poesia. Due millenni dopo, Leon Battista Alberti, architetto e
letterato, con l’aiuto di Piero de’ Medici, signore di Firenze, organizza il “Certame Coronario”, una gara poetica che si
svolge a Santa Maria del Fiore nel 1441, allo scopo di rivitalizzare la
poesia in volgare italiano. Analogamente, come si vede appunto nel film “8 mile”, interpretato da Eminem e ambientato nella Detroit
del 1995, il rap ci propone agguerriti duelli a suon di rime improvvisate.
Esse esprimono la rabbia e il malessere di chi vive ai margini della
cosiddetta “società civile”, appunto al di là dell’Eghit Mile Road, strada che
segna il confine tra indigenza e benessere, neri e bianchi, esclusione e
attuazione del sogno americano.
Per comprendere meglio questo parallelo che può risultare singolare, proviamo
a risalire alle origini. Sembra che la poesia nasca quando i nostri antenati
cominciano a sentire l’esigenza di accompagnare i martellanti ritmi arcaici
con suoni vocali.
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La poesia rimane legata alla
musica almeno fino all’invenzione della stampa a caratteri mobili, avvenuta
intorno alla metà del XV secolo. Basti ricordare l’attaccamento di Petrarca
al suo liuto, uno degli oggetti più cari, che viene
menzionato perfino nel testamento. Nei secoli seguenti la lettura si fa
progressivamente silenziosa, visiva, diviene un fatto privato e al contempo
un fenomeno di massa.
Nel corso del Novecento si è vissuto uno strappo fra pubblico e autore,
perché la poesia in molti casi è divenuta ermetica, autoreferenziale,
indisponibile a dialogare con le aspettative di un
pubblico di non addetti ai lavori. Si perde l’uso della rima, della metrica,
i ritmi divengono dissonanti e i contenuti spesso indecifrabili per il
lettore medio.
Negli anni ‘70 del secolo XX, nasce negli Usa l’hip
hop, che rappresenta una via per salvare la comunità nera dalla disgregazione
sociale, dall’annullamento delle sue radici culturali, dalla definitiva
fagocitazione nel sistema mediatico dominante. L’hip
hop comprende il Writing (l'arte di scrivere) il Breaking (diffuso dai media col nome di Breakdance), il
Rap (parlare-in-ritmo) e
il Djing (la base musicale). Il palcoscenico è la
strada. I graffitisti, lasciando tracce artistiche a colpi di aerosol, si inseriscono in una tradizione arcaica che richiama i
segni ancestrali dell’uomo delle caverne. I gruppi di danzatori devono
stupire esibendosi in coreografie sempre più audaci, acrobazie ginnicamente spavalde, che hanno anche lo scopo di
guadagnarsi il rispetto e sostenere il clan ad affermare il pieno controllo
del territorio.
Il rap consiste nella capacità di saper improvvisare e recitare rime seguendo
il tempo di una base. Il verbo “to rap” significa
dar colpi, picchiettare, e il rap consiste appunto nel battere, scandire il
tempo della base musicale con le rime e le assonanze. Si serve di strumenti
essenziali (come accadeva alle origini): due piatti, un microfono ed un mixer
artigianale, possono schiudere nuovi scenari. Dal punto di vista tecnico, è
assimilabile alla poesia proprio perché fa uso delle stesse tecniche
prosodiche. Per ottenere buoni risultati nelle improvvisazioni, nel rap come
in ogni altro contesto culturale (si ricordano i
poeti popolari che ancora oggi in alcune aree d’Italia improvvisano in ottava
rima), ci vuole una perfetta padronanza della metrica.
A cominciare dal contesto “tribale” tutto rimanda
alle condizioni originarie che hanno determinato la nascita della poesia come
forma di comunicazione necessaria e connaturata all’essere umano, che
coinvolge (e a volte fonde) autore e pubblico, che prende vita in un ambiente
niente affatto raffinato o “colto”, che produce testi e ritmi vitali,
suscitando passioni, che talvolta possono sfociare in alterchi violenti.
Insomma niente a che vedere con l’idea di poesia, che molti apprendono sui
banchi di scuola, come qualcosa di astruso, polveroso, distante e inutile.
Il film “8 mile” ci dice qualcos’altro che sembra
avvalorare la tesi espressa nel libro di Donatella Bisutti:
“La poesia salva la vita”. Il protagonista, Rabbit,
(interpretato da Eminem) tenta il riscatto della propria condizione di
emarginato fra gli emarginati, in quanto bianco in
un quartiere di neri, inventando rime originali e in grado di esprimere in
modo “fottutamente” efficace, la cruda e sporca realtà in cui si trova
immerso. E’ questa passione che lo aiuta a sopportare con tenacia le
asprezze, le ingiustizie della vita, e lo salva da strade tanto facili quanto
pericolose, come la droga, la criminalità, la violenza delle gang.
Certo, non si può sorvolare sugli episodi violenti compiuti e subiti da
alcuni protagonisti dell’hip hop, che si sono spinti fino all’omicidio. Ad
ogni modo, quale che sia il destino del rap, che alcuni vedono in crisi a
causa delle dimensioni del business che stravolge la purezza delle origini e
incrina la credibilità dei rapper più famosi, resta
valido la sollecitazione a ripensare alle funzioni, alle origini, al senso
della poesia. Per rianimarla probabilmente occorre riscoprire una forma
accessibile per esprimere messaggi in sintonia con il nostro tempo, nonché rivalutare il ritmo, la musicalità, il metro, la
rima: tutti elementi connaturati alla lingua (come il battito del cuore
all'esistenza), i quali, se opportunamente assecondati, producono l'atavico
effetto di avvicinare e coinvolgere il fruitore nella dimensione vitale della
poesia.
Pubblicato sul n. 28 di Prospektiva
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