L'invenzione poetica di Meloni in dialetto e in lingua


di Francesco Muzzioli



Enrico Meloni, poeta e narratore, pubblica il suo nuovo libro di versi, dividendolo in due parti: la prima in dialetto romanesco, la seconda in lingua italiana. La prima riflessione che il libro sollecita è quella sull’uso del dialetto; e riflessione che deve essere attenta, perché la scelta di utilizzare un linguaggio locale, oggi potrebbe benissimo legarsi a una propensione verso il “separatismo”, nel senso della ri-feudalizzazione indotta dalla crisi nella tempesta globale. Che poi Roma sia un luogo di “contaminazione” e la stessa tradizione di poesia dialettale sia piuttosto incline al riso, non garantisce del tutto dai rischi di un ritorno alle radici. Del resto Meloni aveva già compiuto la sua svolta dialettale in un libro precedente, Er davenì (2007) e proprio dettata da un ritorno alle radici. Si trattava, però, di un ritorno alle radici individuali, familiari: la storia del padre nella Guerra Mondiale necessitava di un recupero del linguaggio “basso”, precisamente perché voleva essere – oltre che storia privata – la Grande Storia riscritta a partire dall’ottica di un anonimo partecipante. In quella occasione, per altro, Meloni interrompeva il racconto del personaggio per inserire – un po’ al modo dell’antica parabasi o delle canzoni brechtiane – alcuni Corettacci di commento collettivo. E proprio con uno dei Corettacci si riparte in Fratelli mia, denotando l’ampliamento della linea “pubblica” dell’uso del dialetto.

Banksy, Flowers

Pur essendo sempre guidato dall’imperativo della memoria, il nuovo libro punta particolarmente sui problemi del presente. Ed ecco quindi che il dialetto è chiamato ad allargare le sue prospettive e la sua portata. In ciò seguendo una linea che la poesia dialettale ha preso nella fine del Novecento, nell’area romana esemplificata dal caso di Mauro Marè. Si tratta, sintetizzando, di una linea di ricerca sperimentale, secondo la quale il dialetto deve essere portato al livello della lingua, cioè deve dire tutto quello che dice la lingua: quindi sottraendosi al quadretto, al bozzetto popolare, oppure alla rievocazione dell’infanzia (e alle suggestioni della lingua materna), e inglobando invece gli oggetti della modernità e le modalità della riflessione intellettuale.

Mi pare di poter rintracciare, nei testi della prima parte di Fratelli mia, tre direzioni principali:

1) l’inserimento del lessico moderno, romaneschizzato: parole come “spotte”, “griffatelle” («ne le maje griffatelle»), “smoggose” («che ste vitacce ’nchiodeno smoggose»; cioè ammorbate dallo smog). Su questa via si arriva al plurilinguismo che ingloba parole straniere in pronuncia (e scrittura) romanesca, non solo l’inglese entrato ormai nell’uso, ma anche lo spagnolo e altro. Ad esempio: «Yènky go homme e smisurata pace / pacchese, pis, scialomme, frìden, paz», dove l’istanza pacifista deve declinarsi in ogni idioma; oppure, inglese più spagnolo: «Andale andale nell’onna dark / e fflay intu de skay / sull’ale rotte de na sarapica»; e: «Rèinbo de bbona suerte / chi cce fa ccréde ancora ne la legge / anti l’omofobia»;

2) la formazione di composti: “asciuttacore”, “scroccasole”, “caccianuvole”, “scassabanchi”. In alcuni casi, i composti contengono acuminate punte polemiche, come “rettilevisione” (che dice bene la velenosità della trasmissione inculturale) e il quasi impronunciabile “bburocaccrocchi” (a proposito del degrado dell’istruzione scolastica: «aule aulenti sgarrupate a ttocchi / straboccheno de taji scassacazzi / e ddenfornate de bburocaccrocchi»). In questa rubrica rientrano anche le neoformazioni come il “chissandovai” (tradotto nel testo a fronte con l’«ignoto andare») e l’“omminità” (umanità di ominidi, primitiva malgrado tutte le pretese di civiltà). Sta qui il lato più creativo del linguaggio di Meloni;

3) il tessuto di legami sonori. Cito vari esempi: «scalla senza calle / a tutta callara»¸ «bije, bijardini», «No sballo senza fumo nun infama», «verzo de ’n’antra verità inventata?». Comprese ottima paronomasie, quali: le già citate «aule aulenti» oppure «strozzini de strizza», che sono quanti speculano sulle paure e le insicurezze.

Ma tutti questi procedimenti non sono fine a se stessi, sono in relazione con un esplicito progetto di poesia civile, «ciovile povesia», che all’io personale poco concede se non mescolato con una soggettività plurale. In questo anche un modello come Pasolini, che pure riceve il tributo di due componimenti della raccolta, non risulta interamente seguito: il Pasolini in lingua friulana era infatti risolto in atmosfere liriche, mentre qui il lirismo è tutto bruciato in favore della memoria del male storico, della rivendicazione dei diritti e delle manifestazioni di protesta (A scroccasole, ad esempio, segue partecipativamente un corteo studentesco). Un componimento come Cortivamo la Costituzzione, rimane attualissimo, di fronte ai tentativi di rimaneggiamento tuttora in corso. La poesia, dunque, s’incarica di un’incombenza critica per scuotere la «gabbia de ’ntronati» in cui ci troviamo; anche se senza nutrire facili speranze, come si vede nel ritornello di Nada davenì, niente futuro. L’utopia libertaria («smiccià nell’ale libbero er penziero») si ritrova oggi senza garanzie; eppure, anche nella seconda parte in italiano, Meloni ce la ripresenta, magari in forma di Onirica alegria, invitandoci ad approfittare delle difficoltà del sistema dominante che, proprio in quanto universalmente affermato, patisce crepe al suo interno; e dunque, «Quando gli squali mangiano vento / S’accende al sole un lampo di follia / Anche nell’onda nera di burrasca / È lecito sperare nella fuga / … / ». Del resto, non per niente la prima raccolta poetica di Meloni s’intitolava Arca allo sbando, vedendo la salvezza affidata ad acque precarie…

Che l’operazione in italiano, come dimostrano i testi a fronte, risulti meno inventiva, non vuol dire che anche la seconda parte del libro non presenti aspetti sperimentali. Certo, più che a livello lessicale, si svolge a livello metrico: si vedano i testi basati sul verso breve, senari o settenari, le strofette rimate, il ritmo di rap. Una metrica in odore di ironia tecnica, che veicola assai bene la demistificazione delle opinioni comuni. Né va dimenticata l’appendice finale, la traduzione dell’antico poeta persiano Omar Khayyam. Qui, troviamo, ancora il rapporto tra le lingue: ma, di più, troviamo una dedica in cui l’autore, colmando la lontananza storico-geografica del passato e dell’Oriente, propone una rigorosa e materialistica concezione della vita, un “senso” su cui aleggia la lucida certezza della morte («la strizza der capoligna») e che tuttavia, proiettandosi nella “vita del mondo” («ner santo grecile der monno») restituisce valore ai singoli momenti di sensibilità, felicità e realizzazione. Del resto, il Leopardi della Ginestra compare in un altro componimento come nume tutelare.

Alle somme, un libro di poesie che attesta una rara “sinergia” tra forme e contenuti: per forza, chi compie lavoro culturale per il cambiamento, non può lasciare immutata la lingua utilizzata; di qui la conseguente necessità di praticare l’invenzione e la deformazione del dato, dando prova di vitalità a tutti i livelli.

 

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