Er davenì di Enrico Meloni |
Un
monito a non dimenticare |
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Da «Il 996 – Rivista
del Centro Studi Giuseppe Gioacchino Belli», n. 2-3 – maggio-dicembre 2009 Qualcuno
ha affermato che il dialetto non si addice all'epos, alla celebrazione
di avvenimenti o personaggi storici di rilievo. Non ricordo chi lo abbia detto
o scritto, e me ne scuso. Ma se credo perdonabile il deficit di memoria
che non mi aiuta a ricordare il responsabile o almeno qualcuno dei divulgatori di questa affermazione, direi che decisamente non scusabili sono le amnesie di coloro che,
perpetuando una simile sentenza,
hanno continuato a dimenticare alcuni rispettabilissimi nomi del parnaso romanesco che si sono
cimentati nell'epica con risultati
di notevole rilievo: si fermano magari al solo Pascarella, ignorando
per esempio Giulio Cesare Santini e i suoi tre pregevoli poemetti, Napoleone, Dante e L'omo primitivo, che
insieme attingono un totale di
oltre ottomila versi; trascurando inoltre vergognosamente Mario dell'Arco con
le sue Ottave e La peste a Roma; e ignorando altri nomi di livello meno eccelso, ma testimoni
altrettanto validi delle sostanziali potenzialità
del connubio tra epica e dialetto. |
Mi limito nelle citazioni perché sono sicuro che anche il solo
esempio di Li Romani in Russia sia
più che sufficiente per invalidare una si-mile pregiudiziale, che
giudico a dir poco impropria, superficiale e in-fondata. Certo, non tutti gli autori si dimostrano artisticamente
all'al-tezza della
difficoltosissima impresa di organizzare i materiali biografici o storici e di fruirne in modo corretto,
trasponendo in versi una biografia,
un'epoca, un periodo di storia più o meno esteso; ma è anche vero che alcuni
risultati, pur non raggiungendo un livello di eccezionalità formale e
contenutistica, posseggono una decisa dignità e una forza narrativa
che attestano ampiamente la validità dell'adozione dialettale e il vigore
espressivo che il dialetto può aggiungere al racconto di un accadimento: specie quando, come nel caso di un dramma o di un
conflitto, gli eventi posseggano già di per sé una carica di tragica verità. Come dicevo, gli esempi che potrei citare a
sostegno di quanto af-fermo non sono pochi, e mi limiterò a ricordare alcuni
testi nati dalle tristi esperienze dei due conflitti
mondiali: Er libro rosso de la guera di Gino Cori e Guerra
santa di Nino Ilari, ambedue del 1915; Er quaderno
de la guerra di Lello Monconi, del 1919; saltando poi a Roma
libberata di Vincenzo Misserville
(1949) e approdando allo straordinario poema di Elia Marcelli,
Li Romani in Russia: a questo originale, drammatico
testo, esemplarmente sigillato dalla straziante immagine di quel povero fante che,
unico superstite d'un'intera armata, continua «a cammina» «in quell'inferno sconfinato/ pieno de morti senza sepoltura».
E direi, senza tema di smentite, che questo di Marcelli è un testo che nell'ambito della letteratura di guerra può reggere
egregiamente il confronto con le
toccanti rievocazioni di Rigoni Stern, Primo Levi o Giulio Bedeschi. La dolorosa esperienza raccontata da Marcelli nel suo poema (perché tale va considerato, per mole e complessità)
è rievocazione auto-biografica: autore e protagonista coincidono, e la
testimonianza diretta imprime ovviamente un
incisivo timbro di verità all'odissea sua e di tantissimi altri uomini
mandati allo sbaraglio, senza mezzi adeguati, i combattere una guerra
scellerata in una plaga che era già stata la gelida tomba della Grande Armata napoleonica. Nonostante alcune sostanziali e palesi
differenze di mole, di struttura e di esperienza, da Er
davenì di Enrico Meloni
emana un'analoga tensione drammatica. Quantitativamente, le
oltre mille ottave di Li Romani in Russia schiacciano
i settecento versi metricamente variati di Meloni; poi, per
ovvie ragioni anagrafiche e per non indebolire l'efficacia
di testimonianza direttamente sofferta, l'io narrante non può coincidere
qui con l'autore, e siamo dunque in presenza di un'autobiografia mediata: il
figlio si sostituisce al padre, restìo a rievocare il passato («a parla de ste cose nun je piace»), per dargli una voce e fargli
raccontare la sua tormentata
esperienza di combattente e di prigioniero-lavoratore in Germania. Infine, fatta salva la maggiore intensità
delle sofferenze di un soldato sul fronte russo e poi nel corso
dell'esiziale ritirata dal Don,
l'esperienza del padre è diversa: è quella, sempre dolorosa ma meno devastante, di un lavoratore
coatto per il quale non vale la
convenzione di Ginevra e le cui braccia vengono quindi sfruttate nelle
aziende tedesche, senza garanzie di sorta, senza un salario: solo kartoffe e «bujacca», in quantità
appena sufficienti alla sopravvivenza.
Ai soldati italiani che l’8 settembre 1943 non avevano voluto «ripijà ll'armi/ de contro all'Itaijani» era stata
infatti imposta una scelta dolorosa:
o entrare nelle fila della neo Repubblica Sociale, e combattere quindi
contro i connazionali che avevano scelto di non aderirvi; o accettare la prigionia con tutte le aggravanti e
le incognite inerenti alla condizione di prigionieri assegnati a campi
di lavoro. È l'ennesima storia di fame, di freddo, di nostalgia, di paura,
anche se la situazione non è delle
peggiori: si lavora duramente, è vero, lo si fa «fra serci e fanga/ co lo stommico drento che bbiastima»; ma almeno
non si rischia di morire in prima linea o nella camera a gas: Ne
la disgrazzia de la priggionia er
menopeggio è sta cqui ne li campi: pensa
a l'acciajeria a
la mignera, a le fabbriche d'armi, ai
làghere 'ndo' schiatti e cusì ssia. In
fin de settimana pò succède che
lavoricchi da li contadini; sò
donne soprattutto, li mariti, li
fiji a ffà la guerra e Dio provvede. Sotto il tormento della fame, però, logora
mente e corpo il dubbio d'aver sbagliato nella scelta, per non aver invece
aderito all'altra pro-posta: la leggenda che gira fra gli Internati Militari
Italiani narra infatti che per gli "arditi" di Salò sarebbero a
disposizione «cibbo a volontà, [...] sigheri, baccalà, frutti canditi». Er davenì é dunque un racconto-corollario di altri racconti,
che de-scrive sofferenze diverse da quelle terribili dei lager, ma non per
que-sto meno lancinanti; denuncia altre inutili crudeltà di una guerra
assurda ed esiziale, che dovrebbe permanere indelebile nella memoria
collettiva in tutti i suoi orrori, nelle distruzioni, nelle terribili
sofferenze di chi, soldato o civile, l'ha sofferta nella carne, nella psiche,
nei beni materiali, e che oggi è invece diffusamente relegata nel
dimenticatoio o nelle nebbie dell'indifferenza. Ricordare sarebbe oltretutto
un dovere delle nuove generazioni nei confronti di
coloro - sempre meno, per il fatale trascorrere degli anni - che,
miracolosamente usciti da quell'inferno e come ripartoriti
da un secondo utero a una vita normale, soffrono oggi per le
tante speranze frodate, per un mondo eticamente cinico
e corrotto, che non merita certo le migliaia e migliaia di giovinezze
sacrificate allora e le attuali mortificazioni di quanti, per puro istinto di sopravvivenza,
sono faticosamente riusciti a relegare nel profondo del proprio inconscio gli orrori del fronte o dei campi di concentramento nazisti: mostruosità che a quanto pare non
hanno insegnato niente o molto
poco, se le vediamo riemergere, sempre più frequentemente e in diverse forme
e luoghi, negli inquietanti revivals di slogan, gesti, ideologie che si sperava fossero sepolti per
sempre assieme alle salme di coloro
che le avevano elucubrate e imposte. Nel poemetto di Meloni il confronto tra
l'oggi e il passato è diretto, ed è felicemente attuato
introducendo un personaggio collettivo, il quale, riprendendo la struttura della
tragedia classica, è battezzato Corettaccio.
È la voce - quella dei figli -
che si arroga la funzione di ragguagliare sul presente e,
involontariamente, disilludere la prima voce, quella del padre e dei suoi coetanei, che racconta vicissitudini da cui
aveva sinceramente sperato potesse
catarticamente fiorire una vita nuova,
diversa, un desiderato davenì indenne da lacrime e sangue:
vierà un Quarcuno
a rinnaccià lo sgaro I due piani sono distinti anche formalmente. L'autore ha infatti
tentato e nel complesso realizzato il
proposito - dichiarato nella interessante nota introduttiva - di
differenziare nell'ambito stesso del dialetto i due eloqui del padre e
del figlio, adottando due registri dialettali differenziati nelle tonalità e nel lessico tanto da permettere di denotare
anche linguisticamente i due piani cronologici: quello dei fatti di
guerra e di prigionia e quello
dell'attualità enunciata dal Corettaccio, che rappresenta poi er davenì di quel passato. Afferma lucidamente Enrico Meloni nella Nota
dell'autore premessa ai versi: I primi anni '40
vedono ancora il romanesco "tradizionale" come lingua viva; dunque,
il lessico usato nel poemetto, che oggi potrebbe risultare anacronistico, è
in realtà frutto del tentativo di armonizzare il linguaggio con l'epoca in
cui si ambienta la narrazione. Invece i versi del "Corettaccio", che
interpreta er davenì, la voce del futuro, cantando avvenimenti più
vicini a noi, possono avvalersi anche di parole, neologismi ed espressioni non ancora in uso nell'anteguerra. E infatti nelle quindici sezioni di cui si
articola il racconto del padre, contrassegnate da cifre romane e caratterizzate
da una metrica più tradizionale, non ci si
imbatte se non rarissimamente in neoformazioni; che invece prevalgono
nettamente nei versi, franti e variati, in cui si manifesta la visione del Corettaccio. Il
registro generale di queste felici intrusioni è quello di una vivacità
linguistica che tocca spesso l'assemblaggio
asindetico, sopprime il verbo, privilegia l'elencazione, si visualizza
in metafore; richiamando anche in queste modulazioni la cifra distintiva di quello che senza ombra di dubbio - e
con buona pace degli "inesorabili" di ceccarelliana memoria
- è il maggior poeta in romanesco del
secondo Novecento, Mauro Marè; ed è con commosso piacere che la lettura ci offre - inconfondibili ma
generosamente dichiarati - anche alcuni prestiti diretti quali fanellezza,
zittita, ma soprattutto er novunque e gniunquità: neovocaboli
che, per chi l'ha conosciuto e ama
la sua poesia, sono Mauro Marè: un amico che manca ai nostri affetti e soprattutto alla poesia, ma che
evidentemente ha fatto scuola, come
si dice, insegnando soprattutto a sbrogliarsi dalle soffocanti spire di una prosodia invecchiata, costrittoria,
banalizzante, reinventandosi un
romanesco personalizzato, fortemente espressivo e a tratti espressionista, «sercioso» e ardentemente visionario, a
mezzo del quale è possibile
esprimere insieme violenza e amore, lirica e blasfemìa, oscenità e raffinatezza. È bellissimo che Meloni ce
ne richiami la voce poetica,
facendone proprie alcune formule, ma anche adottando il modulo creativo e osando soprattutto escogitare —
quasi un omaggio esplicito — il
neologismo morte-è-già: infinito sostantivato (all'orecchio suona infatti morteggià) di un inesistente ma
efficace morteggiare, il cui significato l'autore spiega come
«esistere come si fosse già morti, ossia senza esercitare la facoltà del pensiero»: quer che
smicciamo oggi? "Gniunquità": impaturgnati
grugni immassimati drento a ttamanti
sfizzi e morte-è-già. Nonostante la distanza cronologica e la
differenza tonale, i due scomparti del poemetto restano però
strettamente connessi, e non soltanto per il rapporto
generazionale esistente fra i due parlanti, ma per
una
continuità/contiguità e una coesione di pensiero che, al di là degli "accidenti" e delle due diverse
contingenze storico-esistenziali, tratteggiano un inquietante davenì, la cui dominante comune è una
speranza delusa: quella del padre
che, tornato alla cosiddetta "normalità", si sente «un fu pischello alegro che s'allacca» e
che spera «d'esse scusato» per essere soltanto «un ècchese internato»
e non un Ulisse, un eroe (e che infatti
non verrà trattato come tale, lui e i suoi compagni di prigionia, per
ingiusto sospetto di collaborazionismo); e la delusione del figlio, anche lui passato per i molti travagli del
secondo Novecento, e drammaticamente sconfortato: Li sogni de
grolia dell'anni Sessanta de pace, diritti,
perfetta uguajianza ... [...] Se so penzati d'arivortà er
monno, de monnallo da
chiàviche de zelle; quarcuno l'ha
ppagata co la pelle, ched'è cambiato? J'è toccato er fonno.
[...] Crollati er
Muro, l'Urrse, l'ideale, resta gajarda in
piedi sora Fame, e finché c'è la
grascia e echi sdiggiuna, chi cià le pezze ar culo e cchi
conzuma, dar basso un ideale sorterà de libbertà,
uguajanza e da magnà. E de sto passo
puro vederete La bbava
d'acqua, li morti de sete. La delusione genera nel padre un'attesa
rassegnata e dubbiosa, quasi spenta non tanto dall'età quanto dalla
consapevolezza che esser tornato vivo è dopotutto un grande privilegio:
«ècchece Roma, bacio gnuda terra»; nel figlio, che ha invece
davanti ancora molti anni da vivere, la reazione è irosa
e indignata, non solo constatando le difficoltà del
vivere quotidiano, ma nutrendo il fondato timore che l'umanità non ha fatto -
forse non ha voluto fare e probabilmente mai farà - qualche passo avanti: L'Istoria è rotonna/ 'na spera che
torna È sempre diverza/ ma l'aria è
l'istessa. Ricorreno fame/
e rivoluzzione, postacci
precari./ disoccupazione, terore, bucìe/ e
libberazzione. È un coinvolgente, drammatico momento di
riflessione (e di acredi-ne) per qualcosa che si sperava
avrebbe potuto essere e non è stato; e che probabilmente - a giudicare almeno
da come vanno oggi le cose etico-politico-economico-culturali -
non sarà mai. Ma, proprio perché è giovane e non può
accettare passivamente un davenì tanto negativo,
il Corettaccio si chiede: «Ma all'orno che tocca, si
tutto è segnato?». E si risponde da solo, coraggiosamente: non con un'ennesima
utopia - lui e suo padre e tutta l'umanità ne hanno subite anche
troppe -, ma proprio con il forte richiamo a salvaguardare la memoria e a coltivare
la consapevolezza di tutto il male accaduto, delitti ed errori, stragi inutili e sofferenze disumane, persecuzioni e
affarismi, ideologie deviate e assolutismi assassini. Nella quasi generale e spesso colpevole opzione
del silenzio sui drammi di un
passato prossimo che pure è ancora piaga non rimarginata, e nelle drammaticità di un presente che è
un inestinguibile rogo di conflitti
nazionali e tribali, un figlio ha voluto tributare questo omaggio al padre, e con lui a tutta una generazione
di padri, raccontandone/rivivendone le vicende e le sofferenze prima che
andassero perdute per sempre con
chi le aveva vissute Solo con il recupero e una corretta rilettura delle sofferte
degenera-zioni del passato -
l'autore/Corettaccio ne è convinto, e noi lo siamo con lui - sarà possibile aprire uno spiraglio di
salvezza: All'omo che penza je tocca er passato.
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