Quando gli squali
mangiano vento
di Enrico Meloni
Se devo riassumere il
significato della narrazione di Enrico Meloni in "Quando gli squali
mangiano vento", posso dire che l'autore è affascinato dalle zone
di confine: tra quella, sentimentale ed affettiva, del
rapporto che nasce tra Alessio Leonetti (Ale) e Roberto Manfredi (Rob), a
quella che vive l'anziano professor Rapisardi, che
giunto sul limite della propria vita, si trova a ripercorrere un anno
scolastico di trent'anni prima da delle pagine di diario, trovando con un certo
sconcerto, ma positivo e filosofico, che le categorie che aveva applicato
allora a tante vicende che l'avevano coinvolto, se non altro come osservatore,
non funzionano più a descriverle. Ed è una zona di confine anche
fisica e topografica, in quel parco metropolitano che delimita una zona
popolosa della città, frequente punto di passaggio e di riposo di un
anziano itinerante nordafricano, Safi, che ritrova
appunto dal confine della propria mente il verso che dà il titolo al
romanzo, e del cane Fedro, che ha addirittura ad un
certo punto il ruolo di essere per Ale “forse
l’unico mammifero con cui vorrebbe socializzare” . Il legame
di Safi con la storia va oltre questi limiti
tuttavia, ma si tratta di cosa che non va svelata.
Tutto questo accade
principalmente su due piani temporali, quello del presente di Rapisardi ormai novantenne, e del 1980-81, forse uno dei
suoi ultimi anni d’insegnamento e probabilmente uno dei più vividi
nel suo ricordo. E dobbiamo all’abilità del narratore se nel
racconto di quell’anno troviamo disperso il modo di procedere ed il ragionamento dell’anziano professore di
filosofia, mentre il film della vita scorre. Così i due piani
s’intersecano e si diramano ancora una volta, come in un intreccio
robusto e solidale con se stesso. E’
chiaro che il professore si aggrappa alle sue evidenze sperimentali di fatti
accaduti nell’ultimo trentennio per dimostrare, prima di tutto
introspettivamente, che la situazione, per quanto riguarda se non altro la
tolleranza ed il rispetto delle scelte sessuali (ed anche, direi,
dell’incertezza adolescenziale in tale scelta), sia molto diversa.
Tuttavia, forse, alla fine non riesce a convincersene.
C’è qualcosa
di più, oltre a questa storia: e non mi riferisco solo alle vicende sentimentali
di entrambi e della classe che li circonda, simile a tante classi di allora e
di sempre, ma con una sua specificità di luogo e di tempo ben precisa,
né alla presenza di almeno un paio di personaggi non facilmente
dimenticabili, Manlio Nardini, detto il Carca, delatore probabilmente suo
malgrado, e specialmente Jacopo Maggi, detto Alce Rosso, indiano metropolitano,
meditativo ed auto-ironico, già leggermente in
estinzione in quel momento. Invece, quello che mi colpisce fortemente, una
considerazione che direi sottesa quasi con prepotenza all’intero
andamento della vicenda, è che ogni minimo caso della vita avrebbe
potuto portare a diversi sviluppi ed a differenti
situazioni. Questo giustifica un finale aperto, segno di profonda
partecipazione narrativa, ma anche saggia ammissione
dell’impossibilità di una reale oggettività dello sguardo, termine cui tutte le riflessioni di Felice Rapisardi in fondo conducono, forse con amarezza, ma
sicuramente con grande onestà intellettuale. E credo che sia proprio il
finale a dare una misura di un romanzo che non somiglia a nessun altro, e dove
le differenti scelte espressive si armonizzano felicemente in una storia non
semplice da raccontare, come credo di aver illustrato, ma che si fa seguire con
interesse e partecipazione.
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