Il rimosso bellico Riflessioni sulle radici del poemetto Er davenì Intervento tenuto il 17 ottobre 2008 presso il Teatro Vittoria di Roma, in occasione del
Convegno organizzato dal Centro studi G. G. Belli “Il dialetto in guerra” Pubblicato sul n. 2-3 – maggio-dicembre
2009 de Il 996 – Rivista del Centro
Studi Giuseppe Gioacchino Belli «Solo i morti hanno visto la fine
della guerra». È un’affermazione attribuita a
Platone e ripresa dal regista Ridley Scott nel film Black Hawk Down, secondo la quale sembrerebbe che chi ha vissuto l’esperienza
della guerra non possa liberarsene per tutta la sua esistenza. Ho provato ad
andare oltre la vita dei sopravvissuti e mi sono chiesto cosa rimane nelle
generazioni successive delle immani e capillarmente diffuse energie negative
sprigionate e messe in moto da un conflitto come la seconda guerra mondiale,
che ha causato fra civili e militari oltre 60 milioni di morti. Cosa hanno
ereditato “i figli” di tanto dolore e tanta distruzione? Nei ripetuti racconti bellici di mio padre, non è mai intervenuta
la “commaraccia”, la “commare secca”, la morte (per i non romani), se non
come un’eco lontana, confusa in uno sfondo incerto e impersonale. Affioravano
rischi, pericoli, incidenti, infortuni, avventure, sofferenza, fame nera,
sconforto, ma niente di insanabile, nessun avvenimento per quanto triste, a
cui non fosse possibile porre un rimedio. Forse non è un caso se l’editore,
dopo aver letto il poemetto Er davenì,
ispirato appunto ai ricordi di guerra di mio padre, ha fatto un accostamento
a La vita è bella: trovò il testo
sorprendente per il filo conduttore della seconda guerra mondiale, trattata –
a suo parere – quasi con la stessa delicatezza che caratterizza il film di
Benigni. Dal momento che una guerra senza morti non si è mai vista,
almeno nel corso del Novecento, ho cominciato a pensare che alcuni aspetti
siano stati (forse inconsciamente?) cancellati dai ricordi di mio padre. Ma
questo genere di riflessioni si è messo in moto soltanto negli ultimi anni,
dopo la sua scomparsa; prima infatti la sua esperienza bellica era quasi un
accadimento che rientrava nella normalità, come può essere un viaggio
avventuroso o un passaggio naturale della vita; soltanto dopo ho cominciato a
meditare sull’ “eccezionalità” di quegli eventi, e in seguito (molto recentemente)
sulle conseguenze che potrebbero aver causato non solo su mio padre. Probabilmente non si esaurisce
tutta la realtà della guerra che rimane dentro chi ne è stato coinvolto, in
racconti per lo più leggeri, a tratti avventurosi, travagliati o dolorosi, a
volte persino divertenti. È ben vero che per molti secoli la guerra è stata
ritenuta, almeno da chi la conduceva, un piacevole e coinvolgente gioco, una
gara. Su questo tema si è soffermato anche lo storico Franco Cardini nel
saggio Quella antica festa crudele,
nel quale scrive ad esempio che la battaglia era considerata bella dai
guerrieri non «soltanto in quanto
“trasgressione impunita”, ma anche in quanto azione ludica, sportiva, in
quanto libero e giovanile esercizio, in quanto momento di sospensione delle
preoccupazioni quotidiane e quindi festa».1
E aggiunge che in epoca feudale i cavalieri consideravano la guerra un
privilegio «perché durava poco e[d era combattuta] nella bella stagione (da
maggio a settembre), perché era occasione di una quantità di incontri mondani
(…) perché era relativamente poco rischiosa, al limite quasi meno del torneo,
dove invece si moriva piuttosto spesso».2 In ogni caso il libro di Cardini
riguarda il medioevo e l’età moderna, quindi non tocca affatto il Novecento, secolo nel quale si
manifesta la “guerra totale”, che non lascia scampo neppure ai civili. Dunque
il secondo conflitto mondiale, non sembra concedere molto spazio alla festa e
al gioco, anzi, si direbbe un periodo in cui la voglia di scherzare viene
meno: ci sono infatti armi di distruzione che lasciano poca speranza di
tornare a casa, e una determinazione ad annientare l’avversario che rende i
comandi molto spesso avulsi da ogni regola cavalleresca. Credo che per
comprendere in un modo più completo e profondo la memoria della guerra e i
suoi effetti, occorra prendere in esame anche il “non detto”, saper ascoltare
il ricordo dei silenzi. Premetto che esistono degli studi
di psicologia che si occupano della trasmissione transgenerazionale del
rimosso, ovvero dell’eredità dell’inconscio dei genitori che viene assorbita
dai figli. Si tratta di un processo “normale” che riguarda tutti noi
indipendentemente da guerre o calamità. Qualcuno mi ha fatto notare che nel
poemetto Er davenì ci sono alcuni punti che
non risultano troppo espliciti, che appaiono scarsamente limpidi, e che tale
aspetto mal si concilia con i miei obiettivi poetici di chiarezza espressiva.
Ho immediatamente individuato i versi in questione. Si tratta in particolare
di una strofa che verosimilmente potrebbe non sembrare molto legata al
contesto. Effettivamente è così, perché questi versi, al contrario degli
altri, danno voce al “non detto”. Se un giorno troverò la pazienza,
l’ispirazione, lo stato d’animo adatto, l’illuminazione, il coraggio per
avventurarmi in un’indagine approfondita del “rimosso” dell’esperienza di
guerra e prigionia, che ho assorbito inconsapevolmente dalla nascita, allora
potrei partire da qui, da questi versi che in qualche modo attingono e si
confondono nell’inconscio paterno. Sarva la pelle e spera, se diceva, nero de notte nera ora de nun parlà, male feroce vattene corri fora, e rrisciacquà le viscere de pace. Un Tevere de lagrime ve lasso Lassù cirri de sanguine; Si jé la fate alleggerite l’anime, Sgravamose der masso, passo passo.3
Parlando con mio padre dei reduci del Vietnam, i quali sia nei
film che nei servizi giornalistici, ci vengono presentati quasi tutti con
disordini psichici post-traumatici, gli domandai com’era a questo riguardo la
situazione nel suo dopoguerra. Non ricordava nessuno fra i suoi amici e
conoscenti che potesse venire incluso nella schiera dei cosiddetti “scemi di
guerra”. Come spiegare la sua risposta?…
Penso che per comprendere si debbano tenere presenti alcune caratteristiche
della sua generazione, peraltro educata in epoca fascista, e quindi poco
propensa all’autocommiserazione, a manifestare le proprie debolezze e quelle
di coloro che hanno condiviso la stessa esperienza bellica. Probabilmente
negli anni Quaranta, i reduci che avevano problemi mentali finivano in
manicomio oppure nascondevano i loro disagi nell’alcolismo, o magari si
rendevano poco visibili ad esempio evitando di uscire di casa. Va inoltre
considerata la “romanità” del “nun piagnemose addosso”. Il belliano: Bbasta, ggià cche cce semo,
alegramente: e nun ce famo dà la cojjonella cor don-der-fiotto che nun giova a
ggnente.4 a conclusione del sonetto La
Nasscita, suggerisce in qualche modo una spiegazione della tendenza a
cancellare avvenimenti, situazioni troppo dolorose, disumane, fortemente
lesive della dignità. Secondo questa visione del mondo la
soluzione migliore è quella di non esternare i propri disagi, anzi, ancora
meglio è buttare le proprie disgrazie dietro le spalle e convincersi che non
sia successo niente di così grave, sperando (più o meno consapevolmente) che
ogni brutto ricordo venga così cancellato per sempre. La rimozione, si può
ritenere sia stata per molti un espediente necessario per tornare a sperare
in una vita “normale”. Tuttavia Freud – com’è noto – ci ha
insegnato che il rimosso continua ad operare nell’inconscio. Dunque in qualche
modo questi fatti troppo amari, angosciosi, devastanti, destabilizzanti per
essere metabolizzati con disinvoltura, hanno continuato a vivere in qualche
zona della psiche. E non solo hanno proseguito a condizionare di nascosto la
vita dei reduci, ma verosimilmente sono passati alle generazioni successive
come una spinosa e occulta eredità dell’inconscio. Fra le ipotesi che si possono fare per spiegare il suicidio di
Primo Levi (ammesso che si tratti effettivamente di suicidio, visto che
qualcuno avanza dei dubbi sulla morte dello scrittore) avvenuto l’11 aprile
1987, a distanza di 42 anni dal termine dell’esperienza concentrazionaria, si
può immaginare che lo scrittore non sia riuscito a raccontare nelle sue opere
tutti gli aspetti degli orrori vissuti nel campo di sterminio. Credo sia
lecito supporre che per rendere fruibili i suoi testi al grande pubblico,
compresi gli alunni delle scuole medie (ai quali ancora oggi vengono
proposti), sia stata necessaria un’opera di mediazione tra la realtà dei fatti,
la memoria e la parola scritta. Non si può escludere che una delle ragioni
del suicidio sia da addebitare proprio all’impossibilità di dire tutto
persino a se stesso. Come il compianto Fabrizio De André, anche io mi sono sempre
ritrovato dalla parte dei più deboli, le mie simpatie sono quasi sempre dalla
parte degli ultimi, dei perdenti. De André in un’intervista disse che questa
sua inclinazione poteva derivare da una predisposizione genetica. Io, per
quanto mi riguarda, ho pensato (sempre di recente) di poter attribuire questa
propensione alla guerra e alla prigionia di mio padre. La guerra ha insegnato che in
qualsiasi momento, per una qualunque ragione anche noi, che ci sentiamo
protetti e al sicuro, possiamo ritrovarci senza casa, senza pane, senza libertà,
obbligati ad una disciplina eccessiva, irrazionale e ad un lavoro forzato,
che non ci sono affatto congeniali. Mio padre proveniva da una condizione
socio-familiare modesta ma solida: casa, affetti, lavoro, radicamento
nell’amata Roma dove ancora il dialetto tradizionale era lingua viva. Si è
ritrovato prima in guerra, e poi nei lager tedeschi, senza libertà, senza
cibo sufficiente, senza un tetto sicuro, senza abiti decenti, senza certezze
alcune per il futuro. Questo insegnamento è passato senza
bisogno di parole, di spiegazioni. Così come altri valori quali la libertà e
la condanna della guerra (percepita come un’assurda degenerazione
dell’umanità, specie se combattuta con armi potenti come quelle usate nel
Novecento), valori che sono anche tutelati dalla Costituzione e che fino a
poco tempo fa in Italia, non erano messi in discussione da nessuno, e, anzi,
la guerra veniva da tutti considerata un tabù. Negli ultimi anni, forse per
un vuoto nella memoria collettiva causato dalla progressiva scomparsa dei
reduci, dei testimoni diretti del secondo conflitto mondiale, sembra che
qualcosa sia cambiato, ed è purtroppo capitato di vedere azioni di guerra
nell’ambito di missioni che sulla carta risultano essere missioni di pace. Dunque la guerra, la prigionia, fra detto e non detto, hanno
in qualche modo generato una compassione verso i meno fortunati, che può
sconfinare nel pessimismo a causa dell’immedesimazione e perché in fondo è
sempre presente la consapevolezza che per un capriccio della sorte, senza
alcun preavviso, domani si potrebbe diventare uno di loro. In ogni caso, a
mio parere, questa compassione venata di pessimismo è certamente preferibile
all’ottimismo egoistico (fin troppo diffuso negli ultimi tempi) di chi
insegue il mito del vincente e considera tutti quelli che non raggiungono uno
status invidiabile, degli “sfigati”
da disprezzare e abbandonare al loro destino. Se tanto dolore bellico ha generato
anche qualcosa di socialmente e individualmente utile, se fra tante macerie
lasciate dalla guerra è possibile riscontrare una nota di ottimismo, lo
dobbiamo alla memoria di quanto avvenne in quegli anni, trasmessa non solo
con le testimonianze, con la parola, ma talvolta anche attraverso i silenzi. Forse alcuni aspetti della guerra, soprattutto la guerra
contemporanea, quella non considerata nel libro di Cardini, sono indicibili.
E non vuol dire che i conflitti non si possano raccontare, che non se ne
possano analizzare moventi e conseguenze fin nei minimi dettagli, che non si
possano mostrare filmati in presa diretta e fotografie. L’orrore, la parola che
l’inquietante Kurtz, protagonista di Cuore
di tenebra (lungo racconto di J. Conrad, che ha ispirato uno dei film più
noti sulla guerra del Vietnam: Apocalipse
now), pronuncia nell’ultimo istante della sua vita, l’orrore della
regressione nel buio dell’animalità, l’orrore generato dalla disintegrazione
di ogni riferimento etico, l’orrore che penetra nel sangue e nelle ossa,
l’orrore subìto ma a volte – non possiamo ignorarlo – anche generato (seppure
forzatamente o senza intenzione, senza consapevolezza), quello forse è
incomunicabile. «Hier ist kein Warum (qui non c’è
perché)»5 risponde una SS a Primo Levi, dopo avergli impedito di dissetarsi
con un pezzo di ghiaccio staccato fuori di una finestra. Forse è proprio per
questa assenza di risposte che la guerra, come l’olocausto, non si può
comunicare fino in fondo, almeno attraverso un linguaggio razionale. Perché
non esiste alcuna giustificazione logica sufficientemente robusta da reggere
alla semplice domanda: perché? Alcuni dei nostri padri, per le
ragioni considerate in precedenza, hanno rinunciato a comunicare le atrocità,
avviandosi sul sentiero della rimozione. Altri hanno parlato, e spesso hanno
avvertito che parlare non bastava a spiegare, a convincere, a comprendere. Le
vibrazioni del loro sconforto giungono ancora sino a noi, attraverso
comunicazioni sotterranee, prive di suono e di voci. Verosimilmente sono
queste vibrazioni che mi hanno spinto a scrivere sulla guerra. Non possiamo
ignorarle. Parlandone, forse, ci rendiamo più liberi. E forse, chissà,
rendiamo più liberi i nostri padri. 1 F. Cardini,
Quella antica festa crudele. Guerra e cultura
della guerra dal Medioevo alla rivoluzione francese, Milano, Mondadori,
1995, p. 414 2 F. Cardini, Op. cit.,
p. 414 3 E. Meloni,
Er davenì, Roma, Progetto Cultura,
2007, p. 82 4 G.G.
Belli, Tutti i sonetti
romaneschi, a c. di M. Teodonio, Roma, Newton Compton, 1998, vol. 1, p.
371. 5 P.
Levi, Se questo è un uomo,
Torino, Einaudi, 1989, p. 25. |
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