L'INDOLE DEI ROMANI E IL RISORGIMENTO

di

Enrico Meloni



 

Gli abitanti della città eterna godono generalmente fama di gente pigra, indolente, in talune occasioni un po' smargiassa, fedele comunque al motto "vivi e lascia vivere". Ben altra reputazione avevano gli antichi Romani, rispettati e temuti in tutto il mondo allora conosciuto a causa delle straordinarie capacità belliche, nonché per l'intraprendenza e l'abilità dimostrata nella costruzione di opere d'ingegneria e nell'amministrazione dei territori sottomessi. Gli abitanti della capitale hanno acquisito la fama di cui si parlava all'inizio, dopo la caduta dell'impero romano d'occidente (476 d. C.), a seguito del secolare governo pontificio all'insegna dell'immobilismo e della cristiana rassegnazione. Generalizzando, si può affermare che durante questo lungo periodo di potere temporale dei papi, i Romani mutarono la loro indole e il loro spirito guerriero di conquistatori.

Tuttavia nel corso dell'800, il fervore del risorgimento italiano contagiò in qualche misura anche gli abitanti della città eterna, che parteciparono alla Repubblica Romana del 1849 e sporadicamente ad altri episodi che si verificarono negli anni successivi alla proclamazione del Regno d'Italia.

Il popolo romano poteva confidare su una garanzia di sicurezza, seppure modesta, rappresentata da ricorrenti distribuzioni di cibo e di soccorsi. Non gli mancava il pane grazie alla capillare assistenza dello Stato Pontificio, degli istituti di beneficenza e di filantropi, che supplivano alla mancanza di lavoro e all'indigenza. Grazie al soccorso di "santa romana chiesa, madre-sovrana", tutti erano certi di sopravvivere a tempo indeterminato. Un'abitudine che, del resto, i Romani avevano fin dai tempi dell'età imperiale, come testimonia la celebre espressione "panem et circenses" coniata dal poeta latino Giovenale, il quale si riferiva alle periodiche distribuzioni di cibo e all'allestimento di spettacoli circensi, che gli imperatori organizzavano per accattivarsi le simpatie del popolo, prevenendo così il pericolo di eventuali sollevazioni.

Il nutrimento sicuro creava un popolo di bell'aspetto che si adattava a vivere alla giornata, alimentando così una disposizione al fatalismo: "Dio vede e provvede". Lo studioso tedesco Gregorovius [nel 1852 si trasferì a Roma, dove visse fino alla morte; nel 1876 gli fu conferita la cittadinanza onoraria] parla a tal proposito di "un popolo bambino", ovvero privo di problemi apparenti, di responsabilità concrete, di doveri. Due espressioni ancora presenti nel linguaggio popolare dei nostri giorni, sintetizzano questa particolare visione del mondo: "tira a campà" e "chi se ne frega". Soprattutto quest'ultima, non sta ad indicare tanto l'orgoglio di chi è consapevole di essere l'erede dell'impero romano e di vivere nel cuore della civiltà cristiana, quanto invece il distacco sociale dalle classi egemoniche, il rifiuto delle gerarchie e dell'obbedienza, la libertà dal lavoro.

Durante i fatti che ruotano intorno alla Repubblica Romana, il popolo divenne protagonista nello scenario rivoluzionario. Tuttavia accorsero volontari da ogni parte d'Italia, tra i quali si ricordano Giuseppe Garibaldi (Nizza), Goffredo Mameli (Genova), Carlo Pisacane (Napoli); dei triumviri che governarono la Repubblica, solo Armellini era romano, difatti Mazzini era genovese mentre Aurelio Saffi di Forlì.

Sebbene la plebe romana non avesse chiaramente coscienza degli avvenimenti che le piovevano addosso, aveva assorbito, almeno in parte, idee e programmi innovativi che venivano da fuori. In ogni caso, le aspirazioni ad una giustizia sociale e alla libertà, possono considerarsi più il prodotto di suggestioni esterne che di rivendicazioni interne. Emblematica a tale riguardo, è la figura di Angelo Brunetti (Roma 1800-Ca’ Tiepolo, Rovigo, 1849), detto Ciceruacchio (da Cicerone) per le sue doti oratorie. Carrettiere di professione, fu tra i più entusiasti sostenitori delle riforme liberali di Pio IX, ma in seguito fu probabilmente coinvolto nell'uccisione di Pellegrino Rossi (1848), consigliere e ministro del pontefice. Contribuì alla difesa della Repubblica Romana (1849), poi seguì Garibaldi nella ritirata verso Venezia. Catturato dagli Austriaci, venne fucilato con il figlio tredicenne Lorenzo. Si trattò di un rivoluzionario inconsapevole, spinto alla lotta come altri popolani dal malcontento, dal disagio sociale e dal clima incandescente del tempo: "Si nun fusse stata quela ventata de popolarità in der 1848, che lo strascinò e lo accecò, forse sarebbe morto in casa sua, in der su' letto (…)", scrive Giggi Zanazzo nella sua opera "Tradizioni popolari romane" (1907-1910) [Roma 1960, p. 62)].

Dopo il 1849 Roma fu tagliata fuori politicamente dalla battaglia risorgimentale ormai incentrata al Nord, verso le prospettive del conflitto austro-piemontese. Quindi Gregorovius poteva scrivere nel 1859, durante la seconda guerra d'indipendenza, che nella città eterna "si vive come in un sogno (…) Roma è silenziosa e soffocante, come perduta nel mondo, ritirata in sé ed incantata: anche lo scirocco soffia continuamente. I momenti più caldi del tempo cadono qui senza rumore come nell'eternità."

Uno dei fatti più eclatanti del Risorgimento romano è costituito dall'episodio di Villa Glori, situata su una piccola altura alla sinistra del Tevere, presso i Monti Parioli. Oggi il viale principale del Parco della Rimembranza, incrocia il viale dei Settanta (approssimazione del numero dei garibaldini che parteciparono all'impresa) e conduce al piazzale dell'Altare, alla colonna commemorativa dei caduti del 1867 ed allo slargo dove ancora oggi è possibile vedere l'albero di mandorlo, presso il quale Enrico Cairoli venne ucciso. Qui il viale del Mandorlo porta all'edificio dove i patrioti si asserragliarono per difendersi dall'attacco dei papalini.

Nel 1867, settantasei volontari, guidati da Enrico Cairoli nato a Pavia, partirono il 20 ottobre da Terni. La mattina del 22 passarono la frontiera a Passo Corese e navigando il Tevere giunsero a Ponte Milvio col proposito di portare aiuto ai patrioti romani di cui era stata annunciata l'insurrezione. Ma in realtà la rivolta popolare non divampò; la massa dei Romani rimase passiva, mentre le truppe pontificie reprimevano sparuti focolai di rivolta. I volontari di Enrico Cairoli restarono un nucleo isolato di ribelli e i papalini li costrinsero a raccogliersi a Villa Glori. Qui si svolse un accanito combattimento contro preponderanti forze pontificie. Enrico Cairoli venne colpito a morte mentre il fratello Giovanni si spense due anni dopo a seguito delle ferite riportate. I superstiti furono fatti prigionieri o ripiegarono su Mentana.

Si pensò, è vero, di rinnovare il tentativo di insurrezione il 27, ma il 25 la polizia fece irruzione nel lanificio Aiani, a Trastevere, dove erano raccolte bombe, armi e una settantina di insorti, e dopo un sanguinoso scontro si rese padrona del luogo.

Giuseppe Monti [muratore di Fermo] e Gaetano Tognetti [romano] accusati di aver fatto esplodere il 22 ottobre, alcuni barili di polvere nelle fogne della caserma Serristori, causando la morte di ventitré zuavi francesi, furono giustiziati il 24 novembre dell'anno successivo. Il 3 novembre 1867 a Mentana i franco-papalini sconfissero circa settemila volontari guidati da Garibaldi. Per giustificare l'esito delle battaglie si attribuì il merito della vittoria a dei formidabili fucili a retrocarica tecnologicamente avanzati, gli "chassepots" in dotazione alle truppe francesi, di cui usufruirono anche i papalini. Tuttavia secondo alcuni storici, pare che fossero armi tutt'altro che pregevoli. Ma allora ciascuno ebbe interesse a dare credito alla leggenda degli chassepots: in Francia forse per valorizzare una nuova arma; in Italia per giustificare meglio la sconfitta garibaldina.

La popolazione cittadina aveva mostrato nell'insieme un ben diverso spirito dai tempi della Repubblica Romana; e tantomeno si erano sollevati gli abitanti della campagna. In questo quadro di immobilismo, la spedizione garibaldina nell'ottobre-novembre 1867, il tentativo di insurrezione interna, lo scoppio delle bombe, l'intervento francese, la sconfitta di Mentana, la condanna a morte di Monti e Tognetti, rappresentarono sia per il popolo che per le autorità romane, niente di più che episodi gravi ma certamente superabili. Roma e i Romani si riadagiarono nella nuova via tracciata dal governo pontificio, in passiva attesa di interventi e di soluzioni che sembravano dipendere solo da volontà esterne. Con la guerra franco-prussiana e la sconfitta di Napoleone III, si profilò una situazione oltremodo favorevole all'annessione della città. A quel punto Roma restò sguarnita dalla protezione delle truppe francesi, e i bersaglieri italiani ebbero il via libera per penetrare nel territorio dello Stato Pontificio e aprirsi un varco nella città eterna attraverso la breccia di Porta Pia. Era il 20 settembre 1870.

In seguito il poeta Cesare Pascarella scrisse i venticinque sonetti di "Villa Gloria" (1886), nei quali è narrata la sfortunata impresa garibaldina. La raccolta fu dedicata a Benedetto Cairoli, fratello di Enrico e Giovanni, esponente di spicco della sinistra storica e tre volte presidente del consiglio fra il 1878 e il 1882. Questi sonetti (di cui si fa seguire il primo) suscitarono l'entusiastico giudizio del Carducci che scrisse: "Non mai poesia di dialetto italiano era salita a quest'altezza". Effettivamente si riscontra una forza narrativa capace di reinventare i fatti, secondo la mentalità e il carattere di un certo popolo romano: sanguigno, essenziale e un po' guascone. La voce narrante è significativamente rappresentata da un trasteverino, quasi a voler rivendicare (a cose fatte) almeno in una dimensione poetica, una viva partecipazione della plebe romana alle vicende risorgimentali.

 



APPENDICE

 

Primo sonetto della silloge "Villa Gloria" (1886) di Cesare Pascarella



A Terni, dove fu l'appuntamento,
Righetto ce schierò in una pianura,
E lì ce disse: - Er vostro sentimento
Lo conosco e nun c'è da avè pavura;

però, dice, compagni! Ve rammento
che st'impresa de noi nun è sicura,
e Roma la vedremo p'un momento
pe' cascà morti giù sott'a le mura.

Per questo, prima de pija' er fucile,
si quarcuno de voi nun se la sente,
lo dica e sòrta fora da le file. -

Dice: - Nun c'è nessuno che la pianta? -
E siccome nessuno disse gnente,
dopo pranzo partissimo in settanta.
 


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