VERSI IN ROMANESCO |
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Riflessioni |
Ho ripreso a
scrivere versi in romanesco dopo oltre un decennio, richiamato dalle
avventurose e tragiche vicende del maggiore filosofo del nostro Rinascimento,
che ebbe la sventura di divulgare le sue concezioni
"rivoluzionarie" nell'epoca della Controriforma, quando la Chiesa
mise in atto tutti i mezzi possibili (persuasivi e repressivi) per impedire
il dilagare della Riforma protestante. Bruno trascorse gli anni più difficili
della sua esistenza nella capitale: nel 1576, quando fuggito da Napoli
accusato di eresia, abbandonò l'abito domenicano e dovette partire al più
presto perché sospettato dell'omicidio di un confratello; poi dal 1593 al
1600 nelle prigioni del Sant'Uffizio, dalle quali
uscì il 17 febbraio 1600 per essere bruciato vivo sul rogo a Campo de' Fiori.
Il tentativo di cancellare il filosofo dalla memoria storica, messo in atto
dalla Chiesa con ogni mezzo, non sortì però gli effetti sperati; e Giordano
Bruno tornò a vivere simbolicamente quasi tre secoli più tardi. Infatti,
nonostante le minacce di Leone XIII di abbandonare Roma qualora la statua
fosse stata scoperta al pubblico, il 9 giugno 1889 il monumento fu inaugurato
in un tripudio di popolo, nella stessa piazza dove
il filosofo venne arso. N.B.: Le mie
ultime acquisizioni relativamente alla poesia
«neodialettale», hanno mutato la posizione formulata nelle Riflessioni qui
presenti. In seguito esporrò le nuove considerazioni che ancora sono in
divenire. Grazie
per la pazienza.
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Campo de' Fiori, 1600
S’è fatta l’ora e l’onna de la notte
Saluta
i viali, er core de
Giordano
Riflette
l’univerzo: mille rotte
De
stelle senza centro. Colle mano
Legate
e la mordacchia ’n bocca sorte
Lungo
le vie sanpietrinate, piano,
La
dignità nell’abbito de morte,
L’eco
de la marmaja de lontano.
«Pago
la libbertà, monno sacrato,
De mannà in croce voi e ll’ipocrisia,
Ignudo
come er monno
m’ha creato.
Pe’ la condanna ar rogo ciò un soriso
E la pavura?... è vostra. Cusìssia,
Ché già m’opre le porte er Paradiso.»
Campo de' Fiori, 1889
– La statua der ribbelle nun la vojo!… –
Ruggì
Papa Leone a un porporato:
– …
Prima me butto giù dar Campidojo
O manno a quer paese er celibbato! –
– Oh
Santità, v’abbasta de fà un fojjo
Indove minacciate de filato:
“Scoprila
e traslocamo er santo sojjo!
Ah Crispi vedi tu… (Morammazzato!)”
Ma grazzie ar popolaccio e a li studenti
Dar
bronzo sbarbajò un mantello nero
Ar
sole, e illuminò puro le menti.
Er nove
giugno dell’ottantanove
Sorte
trionfante er libbero penziero:
Vive Giordano! E ‘r Papa?… Nun
ze move.
Ho pensato di proporre alcuni sonetti di Cesare Pascarella, tratti da La scoperta de l’America (1890),
poemetto ispirato all’impresa di Colombo, nel quale il poeta si diletta a delineare alcuni aspetti dell’animo umano di cui faremmo
(quasi) tutti, volentieri a meno. Ma poiché
calunnie, invidie, imposture etc. etc., esistono oggi come cento,
cinquecento, millanta anni addietro, non resta che prenderne atto e,
possibilmente, oltre che difendersi, trovare la via per riderci sopra. Pascarella forse ha scritto questi versi amareggiato da
fatti che gli sono piovuti addosso; è riuscito comunque a farlo in modo
efficace, incisivo e al contempo con leggerezza ed
ironia; di questo, credo, dobbiamo essergli grati. |
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